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Fronte della Resistenza – I segni preannunciano tempesta

30 Gennaio 2021

FONTE

«Per armare i dilemmi storici del nostro tempo»

Intuendo l’importanza storica delle imminenti trasformazioni del mondo capitalista, a livello tecnologico, economico, politico e sociale, il Fronte di Resistenza si è formato come il tentativo di individuare collettivamente le complesse risposte politico-organizzative alle domande che ci vengono poste dal nostro tempo. Tra gruppi, collettivi e compagni, ci siamo confrontati inizialmente avendo come punto comune la consapevolezza di essere di fronte ad una nuova realtà, nella quale ci siamo resi conto che non possiamo in alcun modo stare mantenendo l’ordine preesistente delle nostre forze politiche. Concentrandosi sui punti di convergenza politica, che dovrebbero essere molti di più in tempi di emergenza come questi, cerchiamo l’alleanza in prima linea con altre forze del movimento, sia come processo di rafforzamento della resistenza stessa sia come unica condizione per tentare di fermare il tentativo in atto di annientare il più ampio movimento antagonista. Crediamo nella necessità di avere un movimento sovversivo organizzato e militante che agirà in una direzione rivoluzionaria, sulla base delle richieste e dei bisogni propri del suo tempo. Una tale logica richiede da un lato, a livello politico, un’unità di azione, dall’altro, a livello strategico, una divisione delle forze, al fine di liberarne il più possibile per creare fronti aperti di conflitto con lo Stato e il Capitale. La constatazione sia della nostra incapacità di stare da soli di fronte alla nuova era che abbiamo davanti, sia della nostra inadeguatezza politico-organizzativa a elaborare in anticipo una strategia collettiva di difesa/attacco, si riflette oggi nell’imbarazzo generalizzato e nell’incapacità di costruire risposte commisurate all’entità della violenza che subiamo. Ma anche se oggi siamo costretti a trovare risposte col fiato sul collo, non pensiamo sia inutile provarci. L’esperienza storica ha dimostrato che quando l’intelligenza, l’esperienza e la caparbietà nella lotta sono sintetizzate in termini collettivi all’interno dei movimenti, allora la maturazione della resistenza accelera e si allarga, coprendo il tempo politico perduto e producendo eventi di decisiva importanza storica. Questi sono i momenti in cui i punti sulla mappa delle lotte sociali si uniscono e la coscienza della memoria collettiva acquisisce una comprensione del suo ruolo nel presente. In un momento in cui l’ignoranza è composta da informazioni frammentarie, è importante analizzare chiaramente le direzioni del nostro tempo per poter creare quegli strumenti di lotta su misura per le nostre esigenze che ci consentiranno di compiere il balzo in avanti. L’elaborazione collettiva di quale sia la posta in gioco del nostro tempo e in particolare l’unità di azione, sono le cause principali della nascita del Fronte di resistenza, che cercherà di partecipare, con quelle che sono le nostre forze, al rilancio del movimento rivoluzionario che tenterà il confronto frontale per il rovesciamento del sistema capitalistico. Tuttavia, prima dell’obiettivo strategico del cambiamento rivoluzionario della società, la fase attuale pone sfide più immediate, dalle quali dipenderà la sopravvivenza delle forze rivoluzionarie del nostro tempo.

«L’esperienza della sconfitta – Mai più passi falsi»

L’attuale battuta d’arresto generalizzata della classe sociale è, tra gli altri fattori, una conseguenza delle molteplici sconfitte dell’ultimo (almeno) decennio, con le dimostrazioni-conflitti di massa anti-memorandum del 2010-2012 che non sono riusciti a fermare il saccheggio sociale, portando così a grosse delusioni (parabola di SYRIZA), e che non hanno messo freno ai memorandum che hanno così affondato nella recessione le resistenze del periodo precedente. La nostra incapacità, sia di confrontarci politicamente-ideologicamente con la (allora) emergente socialdemocrazia, sia di formulare una proposta rivoluzionaria per una via d’uscita dalla crisi, insieme all’integrazione dentro meccanismi rappresentativi dello Stato di parti del più ampio movimento anti-memorandum e al crescente impoverimento e alla conseguente disperazione di una sopravvivenza individualizzata per oltre decennio, sono – in  parte – ciò che ha spianato la strada al governo neoliberista di estrema destra di Nea Democratia (ND). Quindi ripartiamo dalle basi e dallo sforzo di riconquistare la fiducia collettiva nelle nostre forze di fronte alla frustrazione, alla paura e all’individualismo imposte dall’epoca attuale. Crediamo che non ci sia altro modo se non assumersi l’onere ed il rischio necessari della resistenza in questo periodo difficile, cercando di inviare un messaggio di vitalità, unità e speranza di cui tutti abbiamo così disperatamente bisogno. La lotta per mantenere accesa la scintilla oggi, compito difficile e faticoso, sarà anche quella che manterrà ininterrotto il filo storico della resistenza, e che domani ci permetterà di riaccendere la fiamma della rivolta che prima o poi divamperà (di nuovo) dalle nostre parti. In questo contesto, come Fronte di Resistenza, abbiamo considerato cruciali le date del 17 novembre, 26 novembre e 6 dicembre, e abbiamo posto come primo obiettivo del nostro processo di recente costituzione la rivendicazione della presenza del movimento in strada [con il pretesto delle misure anti-covid in quei giorni lo Stato greco ha varato misure straordinarie per impedire assembramenti e cortei. NdT]. Considerando la “strada” come un’area vitale per la resistenza, la questione della disobbedienza ai divieti è diventata una controversia politica centrale, poiché un tentativo di imporre un silenzio funebre in quelle date avrebbe dato allo Stato un vantaggio strategico schiacciante sulle forze del movimento, che si sarebbe sentito ancora di più sconfitto e in ritirata. Ed è su questa questione centrale che sono stati imposti, ispirati dalla Giunta, in via emergenziale editti e divieti, come quello che imponeva il divieto di assembramento per più di 4 persone per i giorni del 17 Novembre e del 6 Dicembre, e il dispiegamento di un apparato impressionante di forze di polizia. Misure che nulla avevano a che fare, come sbandierato sui media, con la tutela della salute pubblica, ma sono iscritte nel piano in corso per emarginare e annientare il movimento dal campo di battaglia pubblico, attraverso una repressione incessante e attraverso la diffusione della paura e del disfattismo. La repressione poliziesca che abbiamo subito in quei giorni non era solo diretta a colpire le parti del movimento. Le centinaia di arresti, il blocco e l’invasione della polizia nel Politecnico, le multe e i feriti non riguardavano una vendetta personale dello Stato con le forze della resistenza, ma corrispondevano alla dottrina repressiva del “ne abbiamo colpiti pochi ma ne abbiamo spaventati molti”, nell’ambito di una strategia preventiva e contro-insurrezionale che viene portata avanti da mesi. Gli sgomberi degli spazi occupati, il divieto di manifestazioni e scioperi, la chiusura del Politecnico e la creazione della “Polizia Universitaria”, l’inasprimento delle misure restrittive per i detenuti e la sorveglianza attraverso strumenti tecnologici sempre più sofisticati degli spazi politici e dei compagni, l’occupazione da parte della polizia di Exarcheia, le “operazioni antiterrorismo”, le svariate indagini su compagni e compagne (ultime quelle per gli eventi dell’ASOEE), rappresentano il tentativo articolato del governo di annichilire preventivamente quelle parti più combattive di società che in un futuro potrebbero saldarsi con segmenti di sfruttati in rivolta. La brutale aggressione repressiva contro il movimento è solo un esempio per coloro che, anche soltanto, pensano di resistere e reagire. Un aspetto questo della più ampia gestione repressiva della crisi sanitaria ed economica che caratterizza il momento odierno. Ed è proprio questa crisi generalizzata che ha posto in queste date un’ulteriore scommessa, sia per noi che per lo Stato. Per lo stato la posta in gioco era cercare di non fare sfociare quelle giornate (17 Novembre, 26 Novembre e 6 Dicembre) in momenti di opposizione di massa e di contestazione all’esecutivo. La nostra invece, era quella di non far passare sotto silenzio la nostra ulteriore svalutazione come lavoratori e la nostra trasformazione in schiavi a basso reddito / resilienti dei padroni, come prigionieri sepolti vivi nel cemento grazie all’etichetta delle “riforme” penitenziarie, come studenti accompagnati passo passo dalla polizia dentro le università, come immigrati diventati una statistica anonima di morte nelle politiche anti-immigrazione della Fortezza Europa in cui vive una guerra che ha semplicemente cambiato forma. Stiamo tutti annegando nella disoccupazione e nella sopravvivenza marginale che ci viene imposta dai sussidi, dal saccheggio delle nostre case da parte delle banche e dalla violenza repressiva pervasiva che ci annega nel controllo e nei divieti. Ma in tutto questo dobbiamo cercare di organizzare la nostra resistenza e attacco. Così, con un esercito di polizia schierato per schiacciare e arrestare chiunque cercasse di radunarsi e manifestare, la questione della nostra (anche se marginale) presenza in strada ha assunto il carattere di un successo. Perché alla fine, le centinaia di persone che hanno spezzato il terrore, che si sono radunate più che potevano, che sono state inseguite, picchiate e arrestate, non solo hanno mostrato ostinazione negando praticamente i divieti ma hanno anche evidenziato il carattere fascista del regime. Perché le immagini dell’orgia di violenza poliziesca di quei giorni hanno mostrato la palese pretestuosità dei divieti e del clima imposto e hanno aperto una questione politica centrale generando malcontento sociale e incrinando l’aura di intoccabilità del governo. E il fallimento politico dello Stato, in relazione – principalmente – al nucleo ideologico-revanscista del suo piano di far sprofondare nel silenzio e nell’oblio le rivolte e i loro messaggi senza tempo che faranno esplodere le prossime, si celebra alla presenza delle centinaia di persone scese nelle strade in quei giorni, che hanno mantenuto vivo il ricordo dei nostri morti e hanno mantenuto accesa la fiamma della rivolta e hanno armato il movimento di coraggio e fiducia per il futuro.

«O resisteremo al macello moderno o saremo disciplinati secondo le linee dello sterminio del dominio»

L’importanza di difendere le nostre linee dall’attacco repressivo è la posta in gioco fondamentale per il movimento e le sue prospettive mentre entriamo in un periodo storico di radicale ristrutturazione. L’attuale gestione della crisi sanitaria e il suo impatto su tutti i bisogni sociali (lavoro, istruzione, alimentazione, salute, alloggi), delinea la transizione verso una nuova realtà, ancor più dura, che verrà imposta con la forza. Questa nuova realtà si riflette già nei contrasti assordanti della situazione attuale, con i milioni di morti, lo smantellamento e il rifiuto degli ospedali pubblici, l’esplosione della povertà e della disoccupazione e, allo stesso tempo, il reclutamento di massa e la spesa di milioni per equipaggiamento della polizia e dei militari, l’imposizione di divieti generali e la mobilitazione delle Forze Armate per la ghettizzazione sperimentale delle baraccopoli (Attica occidentale), ma anche il voto – fatto in fretta e furia durante il lockdown – di proposte di legge straordinarie (sindacali, educative, ambientali). Queste contraddizioni, per la maggior parte nel mondo occidentale, non evidenziano una presunta incapacità dei governi di garantire i beni sociali di base, ma l’annullamento istituzionale del contratto sociale (di cui si vantavano i democratici del mondo capitalista occidentale) e la sua riformulazione attraverso la trasformazione della crisi sanitaria in uno strumento di gestione della ristrutturazione globale del capitalismo. E questa ridefinizione del contratto sociale, come già preannunciato dalle attuali politiche di gestione della crisi, annullerà le garanzie statali del precedente periodo capitalista (keynesiano), allontanando parti via via crescenti della popolazione dall’accesso ai beni sociali, creando eserciti di senza riserve e persino limitando le libertà istituzionali-civili. Ecco perché è evidente che i divieti e i vari lockdown non riguardino solo l’impossibilità di ricoveri di massa di pazienti in ospedali pubblici a corto di personale, ma siano espressione di una fase di adattamento sociale al nuovo regime di esclusione -revoca di quei diritti e libertà che sono considerati inutili per la nuova era che sta prendendo forma. E tutto questo in un contesto storico in cui si osserva una polarizzazione anche all’interno dei centri capitalistici avanzati, sia tra diverse tendenze di applicazione dei modelli liberali, sia tra forze sociali che lottano tra loro per accaparrarsi quelle poche briciole rimaste. Mentre ci avviciniamo a un anno dallo scoppio della pandemia, in cui si registrano cambiamenti storici mondiali condensati, che normalmente richiederebbero decenni prima di verificarsi, ci rendiamo conto di essere al centro di una scena internazionale dilaniata dalla guerra, una caduta gigantesca e violenta di un confronto sempre più aspro tra gli Stati per prendere piede nella ridistribuzione dei mercati (energia, commercio, tecnologia) che sta avvenendo attualmente. La gestione militare-repressiva della pandemia e l’”economia di guerra” applicata sono le indicazioni più chiare dell’emergenza internazionale, con gli Stati che si preparano ad affrontare i nemici sia esterni che interni. La versione nostrana dello stato di emergenza, tenendo conto della specificità del sistema politico greco, combina la gestione della crisi sanitaria con una ridefinizione violenta totale del contratto sociale del periodo postcoloniale, qualcosa che dovrebbe scuotere molto il campo dei “diritti”. Strati di profonda reazione greca hanno trovato nuovo spazio di espressione nell’era che segue la fine della socialdemocrazia di SYRIZA (che è stata accreditata come una prova di un modello di governo di sinistra) e sono ansiose di una vendetta politica. Questa è la parte della reazione che ha familiarità con il periodo della dittatura, che ha come punto di riferimento la destra del dopoguerra, che odia tutto ciò che è progressista e che dopo la caduta della giunta, a volte si è sentita emarginata dalla vita politica e oppressa dallo Stato che ha seguito il cambio di governo (legittimazione del KKE, abolizione della monarchia, riconoscimento della resistenza nazionale, soddisfazione delle rivendicazioni progressiste degli anni ’80, ecc.). Quindi questa parte, che fino ad ora è stata espressa in maggioranza da formazioni politiche marginali ed estremiste, percepisce il nostro tempo come un’opportunità storica per “tornare a come era una volta” e per rivendicare la violenta trasformazione delle correlazioni socio-politiche che si erano formate cinquanta anni fa. Lo stato di emergenza, tuttavia, si riflette anche nella completa militarizzazione della politica interna / estera, con lo stato greco che assume una posizione bellicosa e centrale nei conflitti geopolitici / energetici nella regione del Mediterraneo, come riflesso geografico di forti rivalità transnazionali all’interno della divisione capitalista globale, rivendicando la sua quota di amministratore europeo e hub energetico chiave nei confronti della Turchia. Il militarismo e la repressione nazionalista contro le “minacce esterne” come processo (permanente) di crisi di esportazione si riflettono nell’aumento verticale della spesa per attrezzature militari, nella fortificazione delle frontiere e nella gestione/sterminio militare dei rifugiati-immigrati, nell’aumento del servizio militare e nel reclutamento di migliaia di ufficiali, nella creazione di nuove basi NATO e in alleanze bellicose con regimi autoritari-assassini (Israele, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti). Parallelamente, all’interno del Paese, attraverso il lockdown e gli esercizi di disciplina demografica, le leggi di emergenza e la soffocante presenza dei poliziotti nelle nostre città, si sta costruendo il muro di protezione necessario per un paese che si trova nel bel mezzo di un’escalation di tensioni geopolitiche: rispetto ad una possibile esplosione sociale generalizzata, conseguenza possibile del periodo di stagnazione economica – la cui fine non sembra intravvedersi all’orizzonte – e degli smottamenti sociali che seguiranno alla ristrutturazione capitalista sopra delineata, lo Sato non può che reagire in maniera preventiva e pianificata. Più violentemente viene riformulato il nuovo contratto sociale, più urgente sembra costruire questo muro di protezione. Le politiche che in passato hanno suscitato il consenso sociale, provocando un declino permanente del radicalismo e delle lotte, non potranno più essere attuate nello stesso modo. Le condizioni che una volta garantivano che le popolazioni eccedenti venissero rese “invisibili”, ora stanno cambiando. La popolazione eccedente non sarà formata più solo da immigrati, dalla popolazione delinquenziale dentro e fuori le carceri, dalla forza lavoro di livello inferiore che è fortunata se vive fino alla fine di un turno, poiché la nuova era spinge molte più persone verso l’esclusione. La massiccia distruzione di capitali e la chiusura di microimprese “tossiche” per concentrare il mercato nelle mani dei monopoli, condizione essenziale all’eliminazione di posti di lavoro e alla sostituzione del lavoro con macchine che innescheranno la disoccupazione, la contrazione del mercato del lavoro attraverso la privatizzazione dell’educazione e la promozione della sola classe “eccellente” e privilegiata che riuscirà ad ottenere una laurea, la privatizzazione della salute e l’esclusione dei poveri dal welfare, la ristrutturazione dei rapporti di lavoro e la perpetuazione del lavoro poco retribuito / flessibile senza alcun diritto sindacale, sono alcuni dei punti del travolgente assalto capitalista che creano nuovi assets di classe.

L’era della cosiddetta 4a rivoluzione industriale e la presenza via via maggiore delle nuove tecnologie (robotica, digitalizzazione, intelligenza artificiale) in ogni aspetto della vita sociale (tele-educazione, consumo, comunicazione, intrattenimento, lavoro, diagnosi medica) come processo di ristrutturazione del capitalismo totale, richiede anche la ristrutturazione radicale e violenta della società e delle sue funzioni. L’abolizione informale della democrazia borghese, del ruolo parlamentare e della costituzione, attraverso leggi di emergenza e la riduzione dei diritti sociali fondamentali, dimostra quali potrebbero essere le condizioni per l’imposizione e il consolidamento del nuovo modello di governo richiesto nella nuova era. Ecco perché la “deviazione” delle democrazie borghesi non riguarda un breve periodo che finirà con il ritorno alla “normalità”, ma è consustanziale al processo di ridefinizione globale delle nuove condizioni operative (economiche, politiche e sociali) del mondo capitalista. Ma non importa quanto autoritarismo e polizia saranno imposti, l’impronta della ristrutturazione in corso crea ancora le condizioni per la negazione delle classi sociali. L’emarginazione e l’esclusione di massa dai bisogni sociali di base, i suicidi, l’insicurezza generalizzata, le situazioni di stallo e di agonia erosiva imposte dalla sopravvivenza, la depressione e l’alienazione disumana causata dall’imposizione del “distanziamento sociale”, creano una miscela sociale esplosiva, che prima o poi esploderà, ma non necessariamente in una direzione auspicabile. Ecco perché è necessario non soccombere alla rassegnazione, ma ricostruire la nostra narrazione collettiva come oppressi e trovare un terreno comune per incontrarci e organizzarci per difendere e contrattaccare. Questo è un necessario non solo per la nostra sopravvivenza politica oggi ma anche per poter sviluppare e diffondere progetti rivoluzionari in un prossimo futuro. Il regime sembra onnipotente ma non lo è. La militarizzazione e l’autoritarismo sono segni di destabilizzazione e paura, di fronte al pericolo della disobbedienza di massa e delle rivolte. Sia i milioni di scioperanti che infiammano le fabbriche in Asia, così come i massicci scontri di strada nel continente europeo e americano, confermano i timori che l’umanità rimanga viva e resista, che la famosa “fine della storia” non sia ancora arrivata, che di fronte a una condizione barbarica che non produce altro che povertà e miseria, la ribellione e il rovesciamento rivoluzionario saranno ancora una volta l’unica via d’uscita positiva per gli oppressi. Questo testo è un prodotto della riflessione dei componenti attuali del Fronte di Resistenza. Il fatto che siano molti e diversi i gruppi che lo formano non ha ostacolato la comunicazione, la discussione e la scrittura di un testo di auto-presentazione abbastanza ampio. Quindi quello che qui scriviamo è la direzione del nostro pensiero fino ad ora, ma anche la nostra bussola per capire come ci muoveremo in futuro. In nessun caso, però, vorremmo che queste righe fossero percepite come una sorta di statuto dalle linee inviolabili, chiuso a ogni ulteriore tentativo di dibattito. Il nostro obiettivo è cercare punti di discussione e possibilità di coordinamento con altre forze del movimento e di lotta, nel tentativo di rafforzare i nostri prossimi passi, in un periodo estremamente precario per la sopravvivenza stessa di tutti noi. Con gli strumenti analitici e interpretativi di cui sopra, riteniamo necessario formulare alcune direzioni in cui vogliamo muoverci e che riteniamo possano dare quello slancio di cui oggi abbiamo così disperatamente bisogno.

1) È un presupposto comune che il movimento antagonista debba creare le proprie strategie politiche autonome che si scontrino con le direzioni centrali del dominio capitalista nel nostro paese. Attraverso le lotte che si sviluppano in modo organizzato o che scoppiano spontaneamente, vogliamo non solo stabilire la nostra posizione politica ma lottando implacabilmente rivendicando piccole e grandi vittorie e rivendicando le barricate in fiamme, dalle quali daremo le nostre battaglie.

2) Il tentativo di unire il movimento attorno a obiettivi tattici specifici la cui difesa o rivendicazione innescherà un contrattacco. Attraverso campagne di azione coordinate che rivendicheranno la realizzazione degli obiettivi che ci siamo prefissati, dove viene custodita l’autonomia politica di tutti e di tutte, ma allo stesso tempo viene raccolto e utilizzato tutto il potere politico del movimento, creando così la condizione per diventare politicamente pericolosi. Prendendo come esempio tipico le mobilitazioni del movimento nei casi di sciopero della fame di prigionieri politici, cerchiamo di coltivare la logica politica di delimitazione di “linee rosse” per le quali ci batteremo per custodirle e non arretrare ad ogni costo.

3) Il recupero della nostra coerenza politica nell’intensificarsi della guerra sociale passa attraverso l’attuazione materiale delle strategie e delle proposte teoriche formulate dal movimento. Ciò significa che le parole vanno di pari passo con le nostre azioni in modo che i nostri significati riacquistino il peso speciale che meritano. Affinché possiamo raggiungere le vette della guerra di classe sociale creando quelle correlazioni sociali che a loro volta creeranno quelle condizioni in cui la lotta per la liberazione individuale e collettiva arriva in prima linea nella storia.

In conclusione, in un momento in cui il tempo storico sta accelerando rapidamente, all’alba di una nuova era in cui la violenta ristrutturazione capitalista sta plasmando un ambiente sociale e politico complesso in termini di guerra, dove siamo abituati a vedere le nostre morti nelle statistiche economiche, nelle operazioni di polizia e nei media. La battaglia delle forze di resistenza contro la politica di morte dello Stato, contro la normalità assassina del capitalismo, è la battaglia della vita contro la morte. È la battaglia della libertà contro la schiavitù. Una battaglia che sarà combattuta collettivamente e che porta dentro di sé tutti coloro che hanno combattuto, resistito, rischiato o sono morti. Sarà una battaglia anche per loro, sarà una battaglia per tutti noi.